20 dicembre 2017


 Luci e ombre per i problemi della sicurezza e della legittima difesa in Italia 

Il report del Convegno dello scorso 14 dicembre, a cura di Massimo Manfregola

Riceviamo e pubblichiamo l’articolo a firma del giornalista Massimo Manfregola, redatto a seguito del Convegno “La legittima difesa e l’uso delle armi. I problemi della sicurezza in Italia” del 14 dicembre u.s. a Tivoli, al quale ha preso parte come relatore il Presidente di FederSicurezza Luigi Gabriele.

 

TIVOLI – Erano da poco passate le sette di sera, in procinto dell’orario di chiusura dei negozi. È il 3 febbraio 2015. Un commando di cinque balordi a volto coperto e armati, tentano di forzare l’ingresso della gioielleria Zancan, a Ponte di Nanto, nel vicentino. Tre uomini si avvicendano per forzare l’ingresso blindato del negozio con mazze e picconi, intenzionati a sfondare le vetrine. Il quarto e il quinto uomo fanno da palo, addirittura con un’arma d’assalto come un Kalashnikov. Gli occupanti del negozio, non nuovi a questi episodi, sono atterriti e impietriti sotto la minaccia di questo gruppo di efferati malviventi di etnia rom, giostrai della zona. Genny, la commessa della gioielleria, urla e attira l’attenzione del benzinaio Graziano Stacchio, che gestisce il suo distributore di benzina a pochi passi dal negozio, il quale, senza perdere tempo, imbraccia il suo fucile e spara un colpo in aria come deterrente.

Ma evidentemente non basta: si fanno minacciosi e uno di loro avanza verso Stacchio costretto ad esplodere altri colpi di fucile contro la vettura (vuota) del commando, parcheggiata davanti al negozio di Robertino Zancan, per indurli a desistere. L’assalto fallisce, i cinque a volto coperto riescono a fuggire, ma poco dopo la stessa autovettura, una Renault Laguna SW, verrà ritrovata con uno dei malviventi ancora al posto guida, ma privo di vita. È il corpo esamine di Albano Cassol, stroncato da una emorragia femorale, causata da uno dei colpi esplosi dal benzinaio che è riuscito a sventare la rapina e a mettere in salvo gli occupanti del negozio.

Per Graziano Stacchio, il serafico e introverso benzinaio vicentino, “reo” di aver difeso dagli assalitori armati un gioielliere e la sua commessa, scatta la pesante gogna dell’accusa della Procura, per avere agito con eccesso colposo di legittima difesa.  Dopo mesi di indagini viene arrestato uno dei complici della banda, Oriano Derlesi, identificato e incastrato dai rilievi del Ris, sul quale pesa ora una condanna di nove anni e dieci mesi di reclusione. Gli altri tre complici della batteria sono ancora a piede libero.

Per un assalto ben pianificato di cinque balordi, armati di tutto pugno (infatti sono stati contestati ad Oriano Derlesi, in concorso con Cassol e gli altri tre mai identificati, anche il porto del kalashnikov e di due pistole con relative munizioni, oltre alla ricettazione dell’auto usata per arrivare sul logo della rapina) sono finite sotto processo solo due persone: il benzinaio Graziano Stacchio, che ha sventato la rapina, e solo successivamente prosciolto dall’accusa con l’archiviazione della sua posizione; e appena uno dei rapinatori, l’unico ad essere incastrato della banda, ora in carcere per scontare la sua pena. Per Robertino Zancon, il gioielliere dalla lunga tradizione orafa di famiglia, logorato e danneggiato economicamente e moralmente dai numerosi attacchi della criminalità, ha deciso di chiudere definitivamente i battenti della sua attività. Al cospetto di uno stato che non riesce a gestire e a garantire il controllo e la sicurezza del territorio, arriva la decisione di arrendersi contro la criminalità dilagante. Forse si rifarà una nuova vita «ma solo in un altro Paese» dice il commerciante. È l’amara sintesi di un degrado sociale annunciato.

Di fronte ad uno dei tanti scenari come questo appena menzionato, è doveroso capire dove siano le istituzioni e dov’è finito lo stato, per cui ogni cittadino è impegnato (e obbligato) quotidianamente nel condividere lavoro e ricchezza. Molti doveri  (a volte troppi) e pochi diritti garantiti.

Se è vero che nell’attuale istituto giuridico nazionale la legittima difesa è un’eccezione; perché la difesa del cittadino spetta allo stato, allora il dubbio del perché questo non avviene ci rende più vulnerabili oltre che basiti e angosciati. «Lo stato deroga la sicurezza nazionale al cittadino» ricorda stigmatizzando l’avvocato Antonio Todero, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Tivoli, nel corso del convegno “La legittima difesa e l’uso delle armi” organizzato dal sindacato di polizia “Italia Celere” e da Sergio Meucci, segretario dell’Ugci di Tivoli, tenutosi ieri a Villa Adriana. Nulla di più vero se troppi, tanti di questi casi, affollano quotidianamente la cronaca giudiziaria nazionale.

Le cause di tanta recrudescenza della criminalità in Italia sono complesse, perché è in essere un eterno conflitto con una gestione politica del Paese antitetica, rispetto all’evolversi di certi fenomeni delittuosi. Ha ragione da vendere l’avvocato Todero quando afferma che «la vera pena per coloro che sono incappati nelle maglie della giustizia, solo per essersi difesi di fronte ad un’aggressione conclamata, non è limitata esclusivamente alla drammaticità dell’evento, ma a tutto quello che ne deriva dal processo mediatico, dalle minacce da parte della famiglia della vittima e, non meno grave, lo scotto di dover pagare cifre che vanno da 40 fino a 80 mila euro per fronteggiare le spese a sostegno di una buona difesa nel processo penale». Una beffa oltre alla tragedia per coloro che sono dichiaratamente vittime di uno stato che li ha traditi.

Tutto questo a causa del nodo attorno al quale si aggroviglia la famigerata e discussa legge sulla legittima difesa, art. 52 del codice di procedura penale, retaggio del Codice Rocco degli anni Trenta, che proprio questa legislatura ha cercato (senza molto successo) di migliorare, con il ddl N°3785 già approvato il 4 maggio scorso a Montecitorio, secondo una caratterizzazione controversa sulla “difesa notturna” e poi naufragato clamorosamente fra i banchi di Palazzo Madama.

Quello di un provvedimento legislativo secco ed esaustivo sull’art. 52, soprattutto a tutela di colui che reagisce ad un’aggressione che si consuma nella proprietà privata, era partito da una iniziativa del centrodestra. La Lega di Salvini si fece promotrice di una proposta di legge che mira a riconoscere sempre la legittima difesa in caso di aggressione o rapina nella propria abitazione o luogo di lavoro. Ma il Pd, in commissione alla Camera, modificò il testo, trasformando la proposta da iniziativa in quota alle opposizioni a iniziativa, di fatto, della maggioranza. Vi è stata, dunque, un’alzata di scudi con Salvini in testa, per contestare una proposta di legge dirimente sotto il punto di vista della casistica, perché introduce una distinzione, con un confine molto labile sul piano interpretativo, fra giorno e notte.

Unico punto di forza, di una proposta di legge destinata a non vedere mai la luce, è la possibilità del risarcimento delle spese legali per coloro che il tribunale riconosce a tutti gli effetti non colpevoli di eccesso colposo di legittima difesa.

Rimane quindi la condizione per cui non è punibile, chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.

Non è meno complicata la situazione delle forze dell’ordine, come spiega Andrea Cecchini, presidente del sindacato nazionale di polizia “Italia Celere“, che sottolinea come sia difficile e complicato lavorare sotto una costante pressione di restrizioni legislative dove la difesa personale diventa una condizione quasi residuale. In questo caso il pomo della discordia è l’art. 59 del codice di procedura penale, sulle circostanze che attenuano o escludono la pena nel contesto di una valutazione a favore dell’agente, anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti. 

Le forze dell’ordine sono sempre in prima linea e, soprattutto in questo momento storico, in cui il fenomeno della criminalità registra un aumento per tipologia, qualità e quantità dei reati commessi, diventa molto delicato riuscire a fare il proprio lavoro cercando di tutelare la sicurezza sociale e quella personale. Spesso è complicato riuscire a reagire con una buona scorta di sangue freddo, in una manciata di decimi di secondo, in condizioni in cui si presenta l’ostacolo che nessuno vorrebbe mai vedere davanti ai propri occhi. Come valutare se un determinato intervento rientri nella legittima difesa? Difficile. A volte impossibile. E spesso è la fortuna a decidere le sorti di ognuna delle parti.

Andrea Cecchini, del sindacato di polizia, ammette: «Ci troviamo al cospetto di uno stato spesso irresponsabile. Constatiamo che ormai si denuncia sempre meno anche perché la polizia di stato non dispone di una forza in campo adeguata a gestire i vari fabbisogni della popolazione. Esiste una carenza di sottufficiali di polizia della Questura di Roma, e spesso diventa indispensabile, per la gestione del servizio, una rotazione fra il personale delle volanti e quelle impegnate nel ruolo amministrativo».

Poi il discorso assume un carattere più personale quando si sfiorano situazioni legate all’uso delle armi, quindi entra in ballo l’articolo 59 del codice di procedura penale, una questione molto delicata che spesso “lega le mani” agli agenti di polizia, che vivono con una spada di Damocle sul collo e l’altra sul fianco, contestualmente al reato di tortura, introdotto il 5 luglio di quest’anno, su proposta di Luigi Manconi del Pd, anche se il testo di legge risulta profondamente stravolto rispetto alla prima stesura, per cui il reato è passato dall’essere un “reato proprio”  – relativo all’applicabilità ad una certa qualifica di persone – all’essere “reato comune”,  quindi applicabile a qualsiasi persona.

Ma la condizione di precarietà in cui sono costretti a lavorare gli agenti di sicurezza diventa ancora più complessa quando a garantire la stessa c’è una guardia giurata di un istituto di sicurezza privata. Sono la presenza più assidua e costante a controllo del territorio, fra luoghi pubblici e privati. Il corpo delle guardie giurate è senza dubbio un presidio importante in un contesto in cui esiste una forte criticità per quanto riguarda il rafforzamento delle forze di pubblica sicurezza.

Pur essendo addestrati a ricoprire ruoli di una certa criticità, basti ricordare il servizio per il trasporto e la scorta valori, questa categoria di tutori della sicurezza deve fare i conti con una realtà molto particolare per quanto riguarda le tutele di servizio. A ricordarcelo è Luigi Gabriele, presidente di Federsicurezza, che in modo provocatorio si pone una domanda: «Quale sistema di valori risiede ancora nella parola Italia? Se il nostro sistema giuridico e statale non di adopera per tutelare seriamente quelli che sono i princìpi della nostra Costituzione, diventa davvero complicato riuscire a capire quelli che sono i confini dentro i quali poter operare con una certa garanzia di legalità».  Il riferimento del presidente di Federsicurezza è preciso e ed è legato all’esigenza di un solido riconoscimento di quelle che sono le professionalità nel campo della sicurezza sia pubblica che privata.

Ogni guardia giurata ha un porto d’armi per difesa personale e non certo per la difesa del patrimonio tutelato, così come la pistola che deve acquistare a proprie spese. Questo significa che non esiste nessuna tutela giuridica per quanto riguarda l’inquadramento della professione svolta nell’ambito della sicurezza. La pistola, quindi, può dunque essere utilizzata solo quando tutte le condizioni relative alla difesa personale sono soddisfatte. E tutto dovrebbe avvenire nello scarto di tempo di qualche secondo, nel caso malaugurato in cui si presentasse l’infausta occasione. Anche se il servizio svolto, quello che una volta veniva eseguito dall’Arma dei carabinieri per il trasporto e scorta valori, è praticamente il medesimo rispetto a quello di un tempo. Ed è qui che entra in ballo anche il peso contrattuale come sottolinea ancora Luigi Gabriele: «Basti pensare che lo stato appalta agli istituti di vigilanza privata il costo 14,50 euro all’ora ad operatore, rispetto alle 17 euro sancite dagli accordi con il ministero del Lavoro».

Un tema di grande complessità e di altrettanto interesse, al quale hanno partecipato anche il dottor Luigi Pacifici, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Tivoli e segretario dell’Anm di Tivoli, e l’avvocato Cristian Cerquatti, consigliere Camera penale di Tivoli.

Massimo Manfregola – giornalista

15/12/2017

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